Dici Dario Hubner e pensi a una prima punta possente, vecchio stampo, una di quelle che riusciva a metterla dentro in tutti i modi, non disdegnando spesso colpi tecnici che poco si confacevano a uno spilungone nato a Muggia nel 1967 e arrivato in Serie A a 30 anni: prima aveva fatto la gavetta il buon Dario, partendo come fabbro a forgiar alluminio, per scalare pian pianino la piramide del calcio italiano a suon di gol. Pievigina e Pergocrema i primi passi nel mondo del pallone, spostando il baricentro verso ovest, lì dove poi rimarrà per la vita; il suo exploit nelle Marche, a Fano, dove nel 1992 diventa capocannoniere di C1, quindi lo splendido quinquennio al Manuzzi dove diventa un idolo e, al contempo, uno spietato marcatore di Serie B: col Cesena cinque stagioni in cadetteria, giocando tutte le partite, finendo l’anno sempre in doppia cifra in quanto a realizzazioni (nel 1996 fu il migliore in quanto a gol).
Si vociferava lo volesse l’Inter, alla fine i nerazzurri se li trovò sul proprio cammino ma da avversari: esordio in Serie A dopo 30 primavere di sudore e sigarette, come quelle che fumava in bagno a fine primo tempo anche negli stadi più prestigiosi d’Italia, subito gol a San Siro con la maglia del Brescia. Poi ci pensò Recoba a render agrodolce il suo debutto, finì 2-1 per l’Inter nel giorno della prima di Ronaldo, ma da allora fu un nuovo idillio, quello con le Rondinelle: anche al Rigamonti mise le tende, con due anni di seconda serie nel mezzo, l’ultimo anno con Baggio al fianco. Finita l’esperienza bresciana scese un pochino a sud, a Piacenza, dove vinse il suo terzo titolo di capocannoniere, in coabitazione con Trezeguet campione d’Italia con la Juve: aveva 35 anni ma in fondo sperava in una chiamata mondiale, il Trap ignorò lui e il suo ex compagno Baggio, alla fine il suo più grande rimpianto è stato quello di non aver indossato l’azzurro neanche per un minuto. Così come saltò il trasferimento al Milan, dove avrebbe dovuto fare la quarta punta di una squadra che avrebbe vinto la Champions League.
L’anno dopo probabilmente il canto del cigno: 27 partite ancora con la maglia piacentina, 14 reti in A, quindi le esperienze di Ancona e Perugia senza grandi onori, infine il lento declino dettato dalla carta d’identità più che dalla sua voglia e dalle sue qualità rimaste perennemente intatte. Mantova, Chiari, Rodengo Saiano, Orsa Corte Franca, Castel Mella e Cavenago, a 43 anni ha deciso di dire basta col calcio giocato, almeno quello di marca FIGC, per provare ad allenare: prima i ragazzini del ’99 del Pergocrema, poi anche un’esperienza coi grandi del Royale Fiore, squadra del piacentino militante in Eccellenza che lo ha esonerato nel gennaio del 2014. Poco male, Dario Hubner non è certo tipo che si abbatte facilmente: non a caso lo chiamavano Tatanka, o anche Bisonte, quando caricava a testa bassa l’area di rigore avversaria, così nella vita prende tutto come viene ma senza paura. Oggi vive a Passarera (Cr) con moglie e figli, quando può coltiva l’orto dietro casa, soprattutto aiuta cognato e suoceri nella gestione di un bar.
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